I folletti del monte Tarinè e gli orchi della Val Lerone: racconti di ecocounseling

Si tratta di due storie raccontate in parallelo, pubblicato sulla rivista “Il Foglio” della biblioteca di Tiglieto. Le propongo qui in quanto narrazioni di eco counseling.

Tarinè è il nome di un monte qualunque. Quasi non ti accorgi di esserci arrivato in cima. Non svetta in modo particolare ed è avvolto dalla vegetazione. Un bosco di faggio e quercia coerente con la sua altitudine che non tocca i mille metri. Lo raggiungo con una breve passeggiata da Cascinazze, dopo aver attraversato il piccolo altopiano di Piampaludo.

Non conosco la strada e chiedo informazioni nei pressi di una fontanella. “Il Tarinè?” Lo sguardo si alza a cercare nella memoria il materiale per una risposta che,
dopo pochi secondi, suona pressappoco così: “Si dove fanno la miniera”. Mi colpisce e mi ferisce quel presente indicativo.

E’ una bellissima giornata di maggio e sono andato là per vederlo da vicino questo monte, prima di scriverne per il Foglio. In principio pensavo di parlare del Tarinè, raccontando d’altro, poi però, la tentazione di internet è stata troppo forte. Ci sono andato, in rete, per avvicinarmi alla vicenda Tarinè.

Così ho deciso di proporre due piccole storie e di scriverle in parallelo, su due colonne. Una non è ancora finita, l’altra deve ancora incominciare. In comune potrebbero avere molte cose, e sarebbe una sciagura. Nel cercare di capire entrambe le storie, ci si perde quasi subito in un dedalo di aspetti poco chiari e poco noti.

I FOLLETTI DEL TARINE’

Il sentiero tange una cappella dal tetto rifatto all’antica maniera, con tegole in legno di castagno. Attorno, il rumore rassicurante dei taglia erba e l’abbaiare dei cani in gioco con bambini.

I primi siti offerti da google, inquietano nei contenuti ma rassicurano nei toni. Sono siti ecologisti e blog di chi ha a cuore la sorte del Parco del Beigua. Aiutano a ricostruire la cronologia dei fatti.

Nel 1970 viene scoperto il giacimento di titanio. Nel 1976 il Ministero dell’Industria concede alla s.r.l. Mineraria Italiana la possibilità di sfruttare il giacimento per 20 anni. In seguito tale concessione passa alla “Compagnia Europea per il titanio”, la CET s.r.l. che nel 1991 chiede il prolungamento della concessione per altri 20 anni, pare senza ottenere risposta né decreto di decadenza. Dello stesso anno è la pubblicazione sulla Geological Society of America di un articolo che evidenzia come il Rutilo (l’ossido di titanio) contenuto sotto il Tarinè sia di qualità migliore rispetto ad altri giacimenti europei. Un materiale di grande importanza per il prossimo futuro in “un deposito di importanza mondiale”. Nel 1995 l’area viene inserita nel Parco del Beigua il che blocca le velleità minerarie. CET nel 1996 chiede di poter sfruttare l’area, ma il Ministero si esprime negativamente. Nello stesso anno chiede anche di poter trasferire il titolo minerario alla Doupons De Nemours italiana S.p.A.. Una interrogazione parlamentare denuncia il rischio che grandi attori globali (come la Dupont) siano interessati ai diritti di estrazione. Nel 1996 però, la Conferenza di servizi raffredda le speranza estrattive. Tutto sembra tranquillo finché nel 2015 la CET chiede alla Regione Liguria di poter avviare una pratica di valutazione d’impatto ambientale. La Regione nega il permesso e la società ricorre contro la decisione.

Lungo il percorso trovo un agriturismo in costruzione, un cartello avvisa che si avvale anche di finanziamenti pubblici. Poi il rudere della casa Miculi e, lì accanto ,il tiglio monumentale. Il sole fatica a infilarsi tra le sue fronde e la macchina fotografica a inquadrarlo tutto.

Mi chiedo chi sia la Srl mineraria italiana e internet non mi è d’aiuto. Cerco quindi informazioni sulla Compagnia Europea per il Titanio presieduta da Pierfranco Risoli, commercialista cuneese, numero due della Banca Regionale Europea. Un sito di Cuneo gli dedica un articolo giusto un anno fa. Vengo così a sapere che il Risoli, collezionista di cariche, possiede il 20% delle quote della CET, Ugo Benedetto figura come amministratore delegato, Ada Benedetto porta un altro 20%, Sara Dalmasso circa il 7% e circa il 27% è della Mab srl. La visura camerale racconta che la CET è stata aperta nel 1985 e iscritta nel registro delle imprese nel 2001. Il capitale sociale risulta essere di 10.400 euro.

Diecimilaquattrocento Euro? E’ questa l’azienda che potrebbe far saltare l’ecosistena del Parco e del suo circondario? Ma di cosa stiamo parlando? Non è possibile!

Il sito continua dicendo che l’ultimo bilancio depositato dalla CET srl nel registro delle imprese corrisponde a tre anni fa e riporta un fatturato pari a zero. Il giornalista racconta di quando, non trovato il telefono, si è recato all’indirizzo dove, però non ha trovato la società che cercava, ma un ufficio dell’Ubi Banca di cui fa parte la banca regionale europea, di cui il Risoli è vicepresidente.

Per nulla rassicurato mi chiedo chi sia la Mab srl.

Anch’essa ha un capitale sociale di 10.400 euro, e l’amministratore unico è Ada Benedetto, già socia della CET, che spartisce le quote con la figlia. Un 10% di quote, però, appartengono alla Ferrero Mangimi S.p.A., grande azienda di produzione di mangimi zootecnici, di cui era titolare anche il marito di Ada Benedetto. All’indirizzo della sede la società non risulta mentre si trova però l’ufficio del Risoli.

Per contro la Dupont, con sede a Cernusco sul Naviglio, ha un capitale sociale di 18.094.113 euro.

Nella salita mi accompagna il canto del cuculo. Tace solo quando una motosega lontana si fa sentire, poi è di nuovo il suo canto sincopato. Il rompersi secco sotto le suole, delle foglie cadute, fa fuggire svelte, sul terreno rossastro, alcune lucertole.

Il sito del Sole 24 ore, invece usa toni assai diversi in un articolo del 2013, in cui parla di “due elementi rari e fondamentali per l’industria tecnologica, utilizzati in smartphone e pannelli solari, ma che incredibilmente non vengono sfruttati”. Ecco la metafora della cassaforte piena di ricchezze e sepolta nel terreno, usata da Mattia Pellegrini, responsabile per le materie prime nella Commissione europea. Aggiungendo che il nostro paese importa in grandi quantità le materie prime da cui dipendono le tecnologie.

Guardando le cose da questo punto di vista si arriva al paradosso: per dare vigore all’ecologica economia digitale, occorre far saltare il sistema biologico reale dei nostri territori. Allo stravolgimento del costrutto ecologico si somma l’ideologia dei posti di lavoro, usata come mazza e piede di porco per la devastazione ambientale, infatti: “si stima che almeno trenta milioni di posti di lavoro nell’Unione europea dipendano proprio dall’accesso alle materie prime, un tema sempre più strategico per ogni paese”.

A riportarci più vicini alla terra sono altri siti ecologisti che ricordano come l’estrazione del minerale comporterebbe non trascurabili conseguenze. Centinaia di ettari destinati a cava a cielo aperto, in aree ad alto valore naturalistico; altrettanti adibiti a discarica; inquinamento dei torrenti Orba e Orbarina con indisponibilità di acqua potabile per i comuni piemontesi a valle; decine di migliaia di transiti di camion. Inoltre nella composizione delle rocce è presente l’asbesto blu che tende a separarsi in fibre e che, disperso nell’aria, costituisce un forte elemento di rischio cancerogeno.

In prossimità della cima scorgo una buca, ciò che rimane, forse, di vecchi sondaggi minerari. Cammino sul vecchio stradone tracciato al tempo dei rilievi e dei carotaggi e oggi seminascosto tra erba e cespugli. A sud vedo le antenne del Beigua e, volgendo appena lo sguardo, la Rocca della Biscia. Sulla strada del ritorno mi avvicino a una casa, al momento chiusa e disabitata. Attorno, alberi di pere e ciliegi. Come in un film in bianco e nero rivedo altre case d’Appennino, con gli stessi alberi attorno. L’erba è quella del buon pascolo e la primavera la profuma di fiori. Mi addentro nel prato, il fieno è alto, aspetta la falce. Dal terreno sale una vampa di calore umido, dal cielo arriva un sole deciso. In un attimo riconosco tutto, sfioro la cima dell’erba lunga, mi bagno di quel calore e sento la metamorfosi temporale dentro di me. Sono ancora il bambino con le braghe corte, corro nell’erba più alta di me.

Nel 2013 il Secolo XIX riprende la notizia: “Il giacimento di Piampaludo vale oggi almeno 500 milioni all’anno di euro per diritti di concessione da versare alla Regione per un tempo di almeno quattro o cinque anni. Il giacimento al prezzo del 2012 ha, per gli esperti, un valore complessivo tra i 400 e i 600 miliardi di euro”.Numeri che stravogerebbero i bilanci in crisi della Regione Liguria. Ecco allora l’altro elemento ideologico a sostegno dello sfruttamento ambientale: fronteggiare la crisi che taglia ospedali, welfare, assistenza sociale. A risollevare le sorti pubbliche si erge ora una multinazionale di certificazione ambientale la canadese Golder Associates, il cui direttore europeo rinnova la richiesta di concessione. Così riassume il quotidiano “ È il terzo tentativo della storia, dopo che dal 1970 la scoperta di quel tesoro aveva scatenato le richieste, parzialmente accolte, di altre compagnie, prima la Srl Mineraria Italiana, poi la CET di Torino, attraverso anche soci esteri della Du Pont Nemours Spa.” Con tempismo il giovane direttore della Golder, avanza la sua richiesta in periodo pre elettorale. Sono passati 17 anni da quella che doveva essere la risposta negativa definitiva. Il mondo e la tecnologia sono cambiati. Eccola l’ultima tentazione di Cristo nel deserto: oggi ci sono tecnologie che renderanno l’estrazione un gioco del tutto sicuro. Cosa saranno mai 453 ettari di miniera a cielo aperto e la quantità di terra smossa pari a 20 volte quella utilizzata a realizzare fondamenta e strutture dell’aeroporto di Genova? Continua il giornalista “ma soprattutto dietro c’era il colosso Golder, e dietro ancora le grandi compagnie mondiali, come la Rio Tinto, che immaginano di sfruttare il titanio e di offrire contropartite colossali”.

Osservo la mia carta dei sentieri. Il Parco del Beigua si sviluppa in una forma stranamente frastagliata a cavallo dell’alta via dei monti liguri, poi si allunga verso Rossiglione ed esce dal foglio. Come isole circondate da un alone verde galleggiano sulla carta tre aree. Una di queste circonda il monte Tarinè. Si tratta di un’enclave racchiusa tra due torrenti che confluiscono; tra la strada che scende da Vara verso San Pietro d’Olba e quella che da lì sale tra rocce e curve fino a Piampaludo. Un’isola che c’è, quasi per caso e per fortuna, ma che potrebbe non esserci o non esserci più. L’isola che non c’è più aprirebbe la strada alla miniera. Basterebbero poche righe d’inchiostro vigliacco, magari nascoste in un decreto che parla di tutt’altro, a ridurre il Parco e i suoi poteri di tutela.

Dietro la Golder attendono multinazionali potenti in grado di ottenere concessioni e ricchezza distribuendo denari e sogni. Speriamo di non doverci risvegliare in un incubo.

Attorno al tiglio secolare hanno trovato la loro nascosta dimora, i folletti delle foreste. Li ho ascoltati in una notte buia mentre si raccontavano una storia. L’anziano incitava i giovani a nascondere il monte Tarinè, a renderlo invisibile e impenetrabile. Uno di loro venuto da lontano narrava di un’altra vicenda di cui era stato testimone, la storia di una valle infestata dagli orchi.

GLI ORCHI DELLA VAL LERONE

Ho risalito la parte bassa della Val Lerone in una uggiosa alba di maggio. Ho camminato sulle orme degli orchi.

Addentrarsi nella lugubre storia Stoppani significa risalire un intricato labirinto di rivi marcescenti. Ci provo partendo da una relazione del vice commissario Brescianini, aggiornata al 2009.

Un primo documento risale al marzo del 1900 che autorizza la “Fabbrica di cromo del Comune di Cogoleto”. Lì vengono trasformati minerali di cromo trivalente nel più solubile, utile e pericoloso cromo esavalente.

Il primo forno moderno risale al 1958 a cui ne seguiranno altri. Invertendo le cifre della data si arriva al 1985. In tutti quegli anni si stima siano stati versati in mare, in luogo indicato dalla Capitaneria di Porto, 50.000 metri cubi annui di terre, residuo di lavorazione. Un anno dopo iniziano i riempimenti della discarica di Pian Masino collocata poco sopra lungo il torrente. Infine nel 2003 ha termine la produzione, ma già da due anni il sito è inserito nel “programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale”. La perimetrazione del sito inquinato si estende allargandosi di molto nel mare aperto e assume la ieratica e ironica forma della paletta per raccogliere l’immondizia, con il manico attorno al corso del torrente, che risale la valle. Arpal e azienda producono una mappatura del danno. I valori sembrano abnormi ma difficili da leggere per un profano. Nel 2006, a fronte dello stato di emergenza, un Commissario è incaricato di affrontare il problema e mettere il sito in sicurezza. Nel 2007 la fabbrica Stoppani, già trasformata in Immobiliare Val Lerone S.p.A., dichiara fallimento.

Sulle spalle dello stato grava allora tutto il peso e il costo di una bonifica che appare impossibile. Al 2009, solo di amianto, che è l’ultimo dei problemi, si parla, di 120 tonnellate di rifiuti e si stima un danno per circa 1.241.918.868 euro, un numero che, per la sua precisione suona surreale, ridicolo e tragico insieme.

Poi Le vicende si fanno intricate e prendono vie giudiziarie. Al centro dell’inchiesta è la riapertura della discarica di Molinetto, a pochi chilometri dall’ex fabbrica, che per anni ne ha accolto i residui tossici. E’ la struttura del ragionamento economico che colpisce: per coprire i costi della bonifica sulla discarica si autorizza l’azienda a portare nella stessa 50.000 metri cubi di materiali pericolosi. Uno strano modo per bonificare un’area. Certo, è un problema di denari. La scatola vuota dell’Immobiliare Val Lerone evita di pagare i danni e ne riversa i costi sullo Stato che, al tempo, ha già speso 52 milioni di euro per ridurre l’inquinamento delle acque di falda.

Il management della Stoppani era finito a processo per disastro ambientale e la vicenda giudiziaria si era chiusa nel 2010 con un nulla di fatto. Due dirigenti condannati, ma salvi grazie alla prescrizione. Uno di loro, Luigi Bruzzone, uomo di fiducia della famiglia Stoppani, è nominato consulente dei giudici per la bonifica e, nel 2013, diventa amministratore unico della Dirox Italia srl, la branca italiana dalla multinazionale con la quale il gruppo Stoppani ha ripreso la produzione del cromo in Uruguay. Intervistato, il giudice uruguayano Enrique Viana ha raccontato di aver chiesto al tribunale di Montevideo, già nel 2008, di chiudere la fabbrica che sorge alle porte dalla Capitale. Richiesta negata e giudice bollato come “allarmista”. Risultato: la Dirox continua a produrre e inquinare e – conclude Viana – “tutto avviene con la tolleranza delle autorità. E’ un disastro che dovremo pagare di tasca nostra quando Dirox deciderà, se deciderà, di andarsene”.

I soldi ci sono, li ha la Stoppani, li hanno gli eredi del Luigi, l’iniziatore. Tutto legale però, l’azienda ha fallito, non dà nulla. La risalita della vicenda qui trova un gorgo che assorbe e fa sparire tutto, persone, soldi, memoria.

A proposito delle indagini della corte dei conti così riporta il quotidiano La Repubblica nel luglio 2004: “Oggetto dell’attenzione della procura della Corte, sono i soldi pubblici spesi nelle varie tranche di bonifica del territorio, in particolare la spiaggia alla foce del Lerone, e delle aree interne alla fabbrica in base al programma di fondi comunitari Envireg.” L’indagine cerca di capire se gli enti preposti abbiano verificato a dovere e sorvegliato sul buon uso dei soldi pubblici, anche perché: “Il grosso equivoco, secondo le associazioni ambientaliste, è stato fin dall’inizio rappresentato dalla scelta del soggetto cui affidare la bonifica: la stessa Stoppani”.

Nel ripercorrere questa intricata vicenda si seguono le tracce del cromo esavalente disperso nei quattro elementi, nei corpi di chi lo ha lavorato e di chi gli ha vissuto accanto; si battono le piste dei soldi privati che si nascondono, di quelli pubblici che diventano privati, di quelli che non bastano mai. Come ricorda il Secolo XIX del marzo 2014: “…si finisce in una ragnatela di società anonime svizzere, con collegamenti negli Usa, in Russia e in Cina”. L’immobiliare Val Lerone s.p.a., creata nel 2002, con sede a Milano, ha tre soci: “la società finanziaria Alzavola Spa, la Ginco Holding, società anonima con sede a Lugano, e un legale di Milano. L’Alzavola Spa è la cassaforte di famiglia. La quota di maggioranza, 45%, è in mano, alla Ginco Holding”. La sede della Dirox Italia srl, (ramo italiano dell’omonima multinazionale del cromo che opera in Uruguay) si trova a Milano nei pressi di quella dell’Immobiliare Val Lerone. “ Socio unico è la società anonima Interchrome, con sede a Lugano, presso un’altra società anonima, la Starfin. Presso la Starfin ha sede un’altra società anonima, la Stoppani Sa, nata nel 2008, svizzera, ma con un ufficio di rappresentanza a Milano, presso la Dirox Italia. L’articolo impietosamente continua: “L’ultima tappa di questa vicenda viene scritta a Marcianise, a Caserta, in piena “Terra dei fuochi”… Di certo c’è che la Vanetta Spa (di cui oggi sono attivi due branch in Cina e negli Usa), la Stoppani Spa, e la Alzavola Spa falliscono tutte insieme, poco dopo l’Immobiliare Val Lerone”.

Si potrebbe continuare, andare avanti e indietro tra documenti e articoli di giornale, ma a cercare cosa? Non certo i veleni che invece di essere smaltiti venivano murati all’interno della fabbrica, nemmeno vi è da cercare una verità, che è già sotto gli occhi di tutti.

Qualcosa manca ancora però, infatti, quella fin qui riassunta è la cronaca di un fatto che potrei ritenere marginale nella mia vita. Un fatto che, tuttavia, mi ha sfiorato con le sue unghie verdognole e ha lasciato tracce nei miei ricordi e, spero, non nel DNA.

Quando ero bambino un milione di camion, uno dopo l’altro, passò sotto le finestre di casa mia. Portavano da ogni dove, carichi di materiali inerti e polverosi. Con un cucchiaino di terra alla volta si rubarono il mare prospiciente alla delegazione di Genova Pra. Dove prima era acqua adesso c’era la discarica, immenso luogo selvaggio dove la natura, pur brutalizzata, rinasceva ogni giorno. Un vasto territorio di gioco clandestino per i figli del baby boom. Vi si andava per topi e lucertole, vi si accendevano enormi falò il giorno di S. Giovanni. Ricordo bene quelle collinette di materiale terroso, un poco spugnoso, appena scaricate, appena sorte a modificare il paesaggio irrequieto della discarica. Erano cumuli verdi, gialli, arancioni che ci attiravano e inquietavano insieme: erano i fanghi al cromo della Stoppani e quello, oggi, è il porto di Voltri. Chissà se ancora da quell’ammasso di terra scivola in mare qualcosa? Difficile pensare che non ci finisse nulla allora, quando noi ragazzetti in quel mare trascorrevamo l’estate.

Ricordo alcune ingiallite fotografie di mio padre, allora giovane. Con altri amici campeggiavano, nel dopoguerra, sulla collina verdeggiante di pini, tra i paesi rivieraschi di Arenzano e Cogoleto, quando ancora la fabbrica dei signori Stoppani non aveva acceso i suoi forni. Quella collina l’ho vista mille volte avvolta nel fumo delle ciminiere. Spettrali, i fusti dei pini erano perennemente spogli, l’intero colle, appariva come un cadavere, un’autentica natura morta, ammazzata. Immagino le discussioni e le polemiche dei tempi. Le immagino sopite dalla allora poco sviluppata coscienza ecologica dei partiti di sinistra tradizionali, la immagino soffocata nell’aut aut: o fame o fumo, nel ricatto della disoccupazione.

Giocavo a rugby su un campo costruito a seguito di un riempimento in una valletta, nei pressi della discarica di Molinetto, implicata nelle cronache della Stoppani e della bonifica. Ci fu un periodo in cui era il campo di calcio costruito alla foce del Lerone a ospitare gli allenamenti. Il vento da nord scendeva lungo la valle, raccoglieva il fumo della Stoppani e lo portava sul terreno di gioco opacizzando le quarzine accese, che dovevano illuminare la nostra corsa. L’affanno, l’aria che entra, ossigena il sangue, fuoriesce in forma di fiati caldi, fumi anch’essi, nelle serate fredde.

Quella notte, nascosto ad ascoltare i folletti, rimasi stupito nel scoprire che la storia che raccontavano era, anche, la mia stessa storia.

Lo ricordo mentre cammino nel greto del torrente Lerone. Sfioro il lungo muro che fa da argine, giallo di cromo. Le arrugginite case degli orchi sono sopra di me. I loro escrementi giacciono ancora, per centinaia di metri, ammassati lungo l’acqua che scorre.

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