La pedagogia come arte e l’arte nella pedagogia.

“La pedagogia come arte e l’arte nella pedagogia” è una riflessione presentata durante l’intervista rilasciata alla trasmissione “Prendi l’arte e scappa” in onda sull’emittente Antenna Blu. A stimolare l’autore de “La pedagogia di don Gallo” la scrittrice Luana Valle e Massimo Villa curatore della trasmissione.

 

La relazione pedagogica, la relazione d’aiuto, nel counseling e in contesti  socio educativi, possono avvantaggiarsi di tecniche, di strumenti e di conoscenze teoriche che l’operatore può essere in grado di utilizzare. Tuttavia se riducessimo la relazione alle sole tecniche e strumenti, sono certo che commetteremmo un errore di valutazione e di prospettiva teorica.

Noto che sempre più spesso anche le diciture universitarie sottolineano l’aspetto scientifico della disciplina: scienze pedagogiche, scienze dell’educazione, ecc. Alle nostre latitudini la scienza si traduce sempre più in tecnica e tecnologia il che porta con sé alcuni vantaggi e alcuni rischi. Uno su tutti quello di ricondurre l’uomo, la persona e le relazioni, all’ambiente tecnologico, sempre più pervasivo, perdendo di vista l’autenticità dei corpi e delle menti in relazione.

Sul sito di un amico pedagogista leggo questa massima di Mauro Laeng “La pedagogia è arte dell’educazione, ma anche la scienza di quest’arte e la filosofia di questa scienza”.

Per l’appunto io sono portato a considerare la relazione, e la relazione d’aiuto in particolare, come un’arte più che come una scienza. L’arte, infatti, mi pare rimetta al centro l’irriducibile soggettività e il mistero con cui siamo impastati, l’intuizione e la sensibilità al posto della tecnica d’intervento. Ciò porta lo sguardo su un orizzonte più difficile, meno rassicurante, meno prevedibile, ma forse più intenso. Quel che accade in una relazione non dipende tanto dalla buona esecuzione tecnica quanto dalla magia che si viene a creare tra due soggetti, drammaticamente gettati uno di fronte all’altro.

L’arte è qui esercizio di equilibrio per cercare la strada verso l’altro e verso se stessi. Non sempre si trova.

I concetti di arte e di equilibrio conducono dritti all’interessante fenomeno interculturale noto come sciamanesimo. Lo sciamano era garante dell’equilibrio della comunità dove svolgeva una funzione di cura. Nel farlo utilizzava strumenti, e molti di questi stanno all’origine dell’arte per come noi oggi la conosciamo: dalla musica alla danza, dalla poesia al teatro, dall’uso di oggetti artigianali e colorati alla pittografia.

Mi è capitato di scrivere sull’esperienza pedagogica della Comunità di San Benedetto e su alcuni maestri che ne fondano il pensiero e la prassi (“La pedagogia di don Gallo”, Sensibili alle foglie, 2015)

Il concetto di prassi è sviluppato dal grande pedagogista brasiliano Paulo Freire. Prassi è il connubio di azione e riflessione, due elementi irrinunciabili per fondare un dialogo capace di trasformare il mondo e non c’è dialogo autentico e trasformativo senza amore e senza speranza. L’Arte di Freire è dunque quella dell’emancipazione dell’uomo e passa attraverso la speranza: “La speranza si trova alla radice stessa dell’inconclusione degli uomini, dalla quale essi partono verso una ricerca permanente. Ricerca che non può farsi nell’isolamento, ma nella comunione dagli uni con gli altri, e perciò irrealizzabile nella situazione concreta di oppressione”.

L’esperienza storica della Comunità di San Benedetto mostra come la relazione e i rapporti umani vengano costruiti e mediati dal lavoro comune. Un lavoro sempre creativo e che si è spesso tradotto nelle forme dell’artigianato artistico. Una porta di contatto con se stessi e con la possibilità di produrre bellezza. Come si legge ne “L’impresa sociale” il lavoro va inteso come logos, come ethos, ma soprattutto come pathos, come piacere di realizzare bellezza.

Dal passato al presente si trovano, tra i frequentatori della Comunità, tracce e opere in forma poetica. Nelle vecchie Agende tenute da don Gallo, agli albori della Comunità, si sedimentavano note e appunti di tutti fino a dare luogo a veri componimenti lirici collettivi (“Poi siamo tutti belli” Sensibili alla foglie). Questo delle vecchie Agende è uno strumento organizzativo-espressivo, che guarda al superamento dei ruoli codificati, alla ricerca di un incontro autentico con l’altro.

Vorrei considerare ora alcuni maestri della relazione, realizzatori di importanti esperienze.

Il filosofo francese Emanuel Mounier parla della persona e del suo essere irriducibile ai ruoli. La persona è attività vissuta di auto creazione, di comunicazione e di adesione, in un processo di lotta che porta alla costruzione della persona stessa. Per esprimere tutta la difficoltà di questo processo di implicazione tra sé e l’altro, si esprime così. “La comunicazione è più rara della felicità, più fragile della bellezza”.

Freire utilizzava, per alfabetizzare i campesinos, alcuni strumenti di espressione grafica. La sua funzione pedagogica non era solo quella strettamente legata all’istruzione. L’oppresso aveva per lui il compito storico di liberarsi, liberando così anche l’oppressore dal suo ruolo inumano. Liberarsi per” esser e di più”, per diventare un ”essere per sé” e non “per l’altro”. Per fare ciò occorreva ancorare l’istruzione alla reale condizione umana dei contadini oppressi. Per individuare i temi significativi da cui partire Freire utilizzava il disegno secondo un processo di codifica dei problemi vissuti e decodifica dei significati storici e politici in essi contenuti. L’obiettivo pedagogico era quello di sviluppare la consapevolezza della propria condizione e delle possibilità storiche di cambiamento in essa contenute.

Don Lorenzo Milani, emarginato dalla curia sulle montagne dell’Appennino, realizza uno dei più importanti e scomodi esperimenti pedagogici del dopoguerra. Ancora una volta al centro dell’azione troviamo l’istruzione agganciata alla consapevolezza storica del proprio mondo, della propria classe sociale. La scuola di Barbiana produce un testo tanto importante quanto famoso: “Lettera a una professoressa”. Caratteristica di questo lavoro è la scrittura corale. Proprio questo essere prodotto collettivo, alla ricerca dell’espressività della condizione vera dei ragazzi della sua scuola, fa di questa ricerca sociologica un momento di espressione artistica. Con l’Arte, questa esperienza condivide la ricerca rigorosa di un linguaggio e di una cifra stilistica (”scrivere un libro a livello dei poveri”). I contenuti vengono cercati, espressi, scritti, letti e semplificati fino a quando tutto ciò che di accessorio e confondente è stato eliminato. La lettera che retoricamente si rivolge alla professoressa è in prima istanza rivolta alle classi popolari, contadine, alle famiglie dei suoi stessi autori. I ragazzi della scuola definiscono l’arte in questo modo: “L’arte è il contrario della pigrizia … è voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente gioco di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”.

Giulio Girardi, teologo e docente universitario, racconta (“Le rose non sono borghesi”, Borla) di come la rivoluzione sandinista si sia posta il problema pedagogico. Era importante far superare al popolo nicaraguense una identità derivante da secoli di sottomissione passiva, di servitù interiorizzata. Per Sandino, sogno e immaginazione sono importanti nella prassi di liberazione che passa attraverso una nuova coscienza popolare. Per questo i rivoluzionari successivi da lui ispirati dettero spazio alla poesia e alla letteratura. Il processo di alfabetizzazione avviato nel paese, diventò così un grande laboratorio di autoeducazione che guardava all’arte come a una possibilità di cambiamento.

Sul versante psichiatrico vorrei citare l’esperienza di Franco Basaglia a Gorizia e a Trieste, diffusasi poi in tanti altri luoghi che ad essa si sono ispirati (a Genova ad esempio, l’Istituto per le materie e le forme inconsapevoli). Una immagine su tutte, trasmessaci anche da un recente film: quella del cavallo costruito nel laboratorio artistico, chiuso nel manicomio, che rompe l’isolamento ed esce ala luce del sole.

In tutte queste manifestazioni d’arte e di espressione il denominatore comune è la relazione sottostante che si viene a creare tra le persone implicate nel processo.

Per concludere questa breve rassegna si può notare come emarginazione, oppressione, istruzione, coscientizzazione e riscatto, sono le tappe tracciate da questi maestri, tra cui anche Andrea Gallo. Essi non sono famosi per gli strumenti, anche artistici, che hanno utilizzato. Restano indimenticabile per la più grande bellezza che si può regalare al mondo: l’emancipazione e la crescita degli uomini e delle donne che li hanno incontrati, giacché quando un uomo riesce a esprimersi autenticamente, realizza l’arte misteriosa dell’essere umano.

 

Lascia un commento