Lo sciamanesimo all’origine della relazione d’aiuto a mediazione artistica

Il testo seguente è tratto dal testo “Le origini sciamaniche della relazione d’aiuto a mediazione artistica – Progettazione e sperimentazione di uno strumento” di Alberto Folli

Come lo sciamanesimo è all’origine dell’arte, questa è stata utilizzata, in origine, per la cura e l’equilibrio dei singoli e delle comunità.

DALLO SCIAMANESIMO AL COUNSELING 
La riflessione che propongo con questo testo vuole essere seria e leggera al tempo stesso. Seria per i  fondanti richiami antropologici e leggera perché non intende chiudere con dimostrazioni definitorie su una tesi che collega storicamente o strumentalmente sciamano e counselor. Mi basta porre degli spunti e delle informazioni e su queste andare alla ricerca di suggestioni che, spero, possano avere eco in altri operatori e tecnici ed essere proficue di ragionamenti e fantasie.

Propongo due autori che si collocano, per così dire, a cavallo (sciamanico naturalmente) tra i termini che titolano questo capitolo. Si tratta di Alejandro Jodorowsky e di Paul Rebillot. Non pretendo di dare qui una interpretazione complessiva ed esaustiva degli autori, mi limiterò invece a un lieve tratteggio, giusto per evidenziare le assonanze tra counseling e sciamanismo.
L’artista polivalente Alejandro Jodorowski, nasce in seno al surrealismo sud americano e ci interessa qui per il suo concetto e la sua pratica, di psicomagia. Egli è troppo libero e grande perché si possa ridurre la sua pratica di aiuto al counseling, tuttavia ciò che fa lo richiama.

Da anni, affianca al suo lavoro professionale di artista un’attività gratuita rivolta al benessere delle persone, che svolge sia a livello individuale che in gruppo e perfino in un contesto teatrale chiamato Cabaret Mistico.

Egli inizia la sua “carriera” usando i tarocchi come una sorta di test proiettivo sullo sfondo dell’albero genealogico delle persone che a lui si rivolgono. Si convince però che, oltre alla consapevolezza, si perviene alla guarigione tramite un atto creativo concreto. Racconta di essere partito dalla poesia intesa come atto poetico e improntata all’inaspettato e al bello. L’atto poetico crea un’altra realtà in seno a quella ordinaria. Per lui l’azione artistica ha una valenza purificatrice e terapeutica. Come la magia l’arte è potente, per questo deve essere sempre orientata al positivo ed evitare il fine distruttivo.

Dalla costruzione di burattini, entità metafisiche che vivono in modo autonomo, passa al teatro. Lo supera presto portandolo fuori dalla struttura, nei contesti reali dove sperimenta l’effetto “dell’effimero panico”, nell’ambito di grandi rappresentazioni improntate alla libertà e all’energia onirica trasposte nella realtà. Nel teatro panico l’attore non recita e ha eliminato il personaggio “per arrivare alla persona che è in quel momento”. Un processo dunque che va dal personaggio (quello interpretato socialmente nella vita quotidiana) alla persona (quella autenticità che rimane nascosta e che spesso non trova spazio sociale per esprimersi). “Questo “altro” che si sveglia nell’euforia panica non è un burattino fatto di definizioni e menzogne, ma un essere con limiti minori”.

Ecco ancora il concetto di “realtà” che Jodorowsky considera come una mera parte di un sistema più ampio. E con lui ritroviamo anche il concetto del “doppio”. Il doppio è un aspetto irrisolto del nostro ego che copre “l’Originale”. Nelle pratiche psicomagiche, nelle sontuose e sfrenate rappresentazioni oniriche, l’Originale ha il sopravvento sul doppio, l’invasore di noi stessi, una parte di noi.

 

L’autore descrive la sua capacità di sogno lucido, che consiste nel governare il sogno. Una competenza propriamente sciamanica che viene descritta, infatti, anche da Castaneda.

A cosa serve il sogno lucido? Cosa lo avvicina al counseling?

Dice l’autore: “Il sogno lucido mi ha insegnato a confrontarmi con il mostro. Si può sfuggire finché non ci si sente sufficientemente forti per affrontarlo, ma arriva il momento in cui bisogna guardarlo negli occhi. Perché accade spesso che la sfida faccia si che il mostro si trasformi in un alleato. La nostra paura alimenta l’animosità dell’avversario, mentre la volontà di affrontarlo con amore lo disarma, vale a dire gli fa cambiare disposizione”.

Ho riportato integralmente questo brano perché in esso riecheggiano sia il lavoro di Rebillot sia quel concetto di sfida incontrato nel mio lavoro di counseling.

La psicomagia consiste nel parlare il linguaggio dell’inconscio per dialogare con esso. Per spiegarlo l’autore racconta la sua esperienza con l’anziana guaritrice Paquita. Descrive le sue operazioni magiche e “chirurgiche” basate sulla suggestione; racconta del suo modo di stabilire un contatto toccando l’interlocutore con le mani ed evocando in lui il bambino. Paquita è quindi una specialista della comunicazione simbolica.

Per la buona riuscita, per la guarigione, non è tanto importante la fede della persona che richiede l’aiuto quanto l’obbedienza, l’esecuzione del mandato psicomagico.

La consegna dell’atto psicomagico prevede un mutuo accordo con la persona in merito alla precisa esecuzione dell’atto stesso. Eseguire puntualmente significa già una volontà di cambiamento, senza la quale nulla può accedere. Jodorowsky prescrive gli atti psicomagici da una posizione di dissociazione personale, di trance, di distacco. “Per poter aiutare una persona non bisogna aspettarsi niente da lei, e si deve poter accedere agli aspetti più profondi della sua intimità senza sentirsi per questo coinvolti o destabilizzati”. Chi lo ha scritto: Rogers o Iodorowsky?

In sostanza l’atto psicomagico è l’esecuzione di un comportamento inedito, dal forte valore simbolico, talvolta scioccante o imbarazzante. In ogni caso è tale se riesce a comunicare con l’inconscio di chi lo pratica, favorendo nel caso la comunicazione con se stesso o con altre figure significative rispetto al problema da risolvere. Si tratta, in fondo, di un concreto atto di immaginazione, di un atto artistico.

“L’arte è curativa perché dobbiamo guarirci dal fatto di non essere noi stessi e non stare nel presente”. Chi lo ha detto: Perls o Jodorowsky?
In ultimo voglio evidenziare un altro aspetto che collega questo autore con Rebillot e con l’atteggiamento sciamanico: il valore “curativo” della consapevolezza posto in una prospettiva che trascende il singolo individuo.

Così Jodorowsky:

“La malattia consiste nel fatto che abbiamo tagliato i collegamenti con il mondo. La malattia è mancanza di bellezza e la bellezza è unione. La malattia è mancanza di coscienza, e la coscienza è unione con se stessi e con l’universo”
Così Matsuwa (sciamano Hiuchol):

Vedo che molta gente qui è presa solo dalla sua piccola esistenza: essa non volge il suo amore verso il sole, verso l’oceano o verso la terra. … Ma qui, tutto è in squilibrio da tanto tempo… Dovremmo raccoglierci assieme e con le cerimonie cominciare a entrare in armonia con l’ambiente, riportandolo di nuovo in equilibrio.”
Così Rebillot:

“Visto che gli attori sono strappati dalla loro relazione con la natura e il pubblico è staccato dalla storia, il teatro perde la sua dimensione cosmica e di conseguenza la sua capacità di guarire. Per recuperare la magia terapeutica del teatro, dobbiamo entrare nel teatro della nostra stessa anima e divenire gli attori principali del nostro personale dramma cosmico permettendo all’eternità della struttura mitologica di penetrare la cronologia della nostra vita di tutti i giorni”.
Paul Rebillot, pioniere della psicologia umanistica americana, approfondisce il senso del rito e della catarsi curativa in un testo intitolato “Il viaggio dell’eroe”la cui base teorica affonda nell’antropologia sciamanica e nella teoria della Gestalt. La pratica da lui proposta si svolge in gruppo in una dimensione residenziale che dura più giorni.

 

Egli mette in relazione la società con la realizzazione degli individui. In una società che ha quasi del tutto perduto i riti di passaggio, gli individui avvertono, nel corso della loro vita, dei richiami ad essere e fare altro. E’ questo il richiamo a cui l’eroe risponde affrontando le resistenze che si pongono sul suo cammino. Nel percorso proposto da Rebillot, come nelle fiabe, come nella tradizione sciamanica che le precede, l’eroe è affiancato da aiutanti: uno spirito guida che porta in dote uno strumento di potere. Debitamente “armato” l’eroe si avvia a superare la soglia dell’avventura. Il concetto di soglia è eminentemente sciamanico e indica la transizione tra mondi, tra livelli di coscienza e di esperienza. Una qualche forma di resistenza, archetipicamente rappresentata, blocca la strada all’eroe nel suo viaggio: è il demone della resistenza.

Secondo i dettami della Gestalt il demone non verrà distrutto ma reintegrato come parte di sé. Alla fine del viaggio arriva un premio, ma solo dopo aver lottato con la morte (anche questo in linea con la tradizione sciamanica). Il ritorno presuppone il passaggio di soglia e il rientro nel mondo quotidiano.

Rebillot cerca di recuperare la valenza curativa del teatro, basata sulla relazione tra attori e natura in prospettiva cosmica e sulla capacità del pubblico di essere in contatto con la storia rappresentata.

Gli sciamani guarivano mettendo in scena una rappresentazione rituale legata alla cosmogonia e al concetto di malattia propri della loro cultura; il teatro greco, più recente nella storia dell’umanità, guariva attraverso la catarsi. Rebillot, consapevole della perdita del potenziale curativo a causa della caduta dei miti, dei rituali e dei dispositivi scenici, forza la mano, attualizza la procedura e rafforza il ruolo del soggetto in cerca di cura che diviene qui attore principale, mentre la guida, erede dell’antico sciamano, fa un passo indietro nel produrre la rappresentazione, con un ruolo di accompagnatore e di guida lungo territori a lui noti.

Ritroviamo qui la risposta al quesito, che ricorre nelle pagine precedenti, sul ruolo dell’art counselor, su chi abbia parte attiva nella scena di cura. Il conduttore deve essere consapevole del suo ruolo. Egli non è un guaritore, solo accompagna le persone nel percorso di cura e di crescita.

Con la “danza del vuoto fertile” si passa dal rito al dramma.

Il metodo drammatico proposto è quello di Stanislawski in cui l’attore impersona il personaggio a partire dalle proprie caratteristiche personali.

Il viaggio si svolge sulla soglia del livello ipnagogico, tra veglia e sonno, tra realtà e immaginazione, tra mito e realtà. Uno stato di coscienza propedeutico a richiamare immagini.

Nel metodo di Rebillot si fa uso di musica, di canti e di metafore prima ancora che di spiegazioni.

I partecipanti alla sessione sono accompagnati, tramite una immaginazione guidata, a cercare il punto di partenza, una terra da cui partire per il loro percorso di crescita personale. Al termine le persone passano a disegnare 5 figure e a narrarsele reciprocamente. Tra disegno e narrazione si lavora sul tema del colore (in relazione con le sensazioni e l’energia viscerale), con la forma (collegata alle emozioni e al cuore), con il simbolo (riconducibile alla testa, alla memoria, ai significati).

Per la costruzione dell’eroe occorre assumere un punto di vista molto positivo e valorizzante nei propri confronti. A tutto ciò si opporrà il demone di cui occorre divenire consapevoli.

Rebillot invita a lavorare con gli archetipi (patrimonio comune dell’umanità), giocare a fare “come se”, nel modo tipico dei bambini.

La “litania amorosa” è un canto che riepiloga le proprie caratteristiche eroiche. Il gruppo dei partecipanti, riunito in un cerchio rituale, fornisce sostegno all’assunzione di tali caratteri al singolo. Tale sostegno arriva nella forma del ritmo e del canto (un livello pre conscio giacché “non occorre capire il ritmo per mettersi a ballare ascoltando il tamburo”).

Il giorno successivo è dedicato all’ascolto del demone, l’agente di resistenza al nostro volerci espandere.

Il demone è la parte di sé che risulta inappropriata rispetto al contesto e alla direzione. Può esprimersi nel controllo eccessivo oppure nella forma del bambino libero. In ogni caso trattiene dal raggiungere la propria piena realizzazione.

Rebillot propone per prima l’esperienza della retroflessione, il trattenere il gesto emotivo, originato nell’infanzia e assunto come decisione. Un trattenere che genera irrigidimento muscolare e che conduce l’energia bloccata contro sé stessi nella forma della disistima. Occorre assumere la responsabilità di quella antica decisione, allora funzionale ma poi divenuta obsoleta, per poter cambiare.

Ogni energia che vuole liberarsi e che è trattenuta, diventa tossica, autodistruttiva.

L’ascolto del corpo e delle sue contratture e resistenze viene tradotto in esercizi che enfatizzano il sintomo. Il metodo propone la drammatizzazione e il disegno dell’esperienza corporea fatta con la metafora del corpo come campo di battaglia.

Rebillot si rifà probabilmente all’Analisi Transazionale quando propone di scrivere la azioni e le parole (gli script) dell’agente interno del controllo, così come le reazioni ad esso e gli impulsi spontanei del bambino.

Avvisa che non è insolito scoprire che alcune qualità desiderate sono più facilmente esprimibili nella forma demonica che non nelle vesti dell’eroe.

Una volta caratterizzati eroe e demone ci si avvia al loro confronto e all’auspicabile integrazione delle parti. Per rafforzare l’eroe, lo spirito-guida aiuta a trovare uno strumento di potere, un oggetto simbolo del potere radicato nell’eroe e dunque nella persona.

Dotati di tale potere gli eroi si accingono a varcare la soglia dell’avventura, passaggio necessario a compiere “il miracolo”, il cambiamento che ci si è prefissati. A guardia della soglia si erge il demone della resistenza le cui ragioni occorre incontrare e guardare negli occhi. Questo è il momento del confronto che conduce i partecipanti ad un livello maggiore di interiorità.

Nello scontro-confronto il demone potrebbe essere ucciso. Per impedire tale perdita lo strumento del potere serve a poter trasformare il demone in  qualcosa di assimilabile affinché la persona non perda una parte di sé (“dietro ogni demone c’è un piccolo bambino ferito”).

Ora la “prova suprema” attende gli eroi. Ancora con il medium dell’immaginazione e della fantasia guidata le persone affrontano la propria paura più profonda, quella che sta all’origine di ogni resistenza e che viene evocata dal richiamo.

Dopo quest’ultima prova gli eroi si avviano a ricevere la propria ricompensa, nei termini del senso e del significato complessivo del lavoro svolto. Siamo così alla fase di post contatto dove i partecipanti si preparano al ritorno nel mondo quotidiano e a lasciare i panni simbolici fin qui vestiti. La ricompensa è la strada che unisce il mondo interiore al mondo esterno e in tale fase occorre individuare delle azioni concrete da realizzare nella propria vita.

Rebillot vede nel suo lavoro un veicolo di speranza e il libro è un modo per divulgarne il messaggio nella contemporaneità: l’umanità ha superato la fase del matriarcato e oggi anche il modello patriarcale appare in crisi (almeno in occidente). L’autore propone allora l’epoca del fanciullo, della fratellanza e della sorellanza. Il tempo cioè in cui ognuno si assume la responsabilità di sé e del mondo senza guardare ai genitori, a modelli altri da se stessi.

Lascia un commento